Intervista a Paolo Zardi
Paolo Zardi è uno scrittore italiano, autore di racconti e romanzi. Ha pubblicato, nell’ordine: Antropometria (Neo Edizioni, 2010 — racconti), La felicità esiste (Alet, 2012 — romanzo), Il giorno che diventammo umani (Neo Edizioni, 2013 — racconti), Il Signor Bovary (Intermezzi, 2014 — romanzo breve), XXI Secolo (Neo Edizioni, 2015 — romanzo). Ha partecipato a diverse raccolte di racconti e suoi racconti sono stati pubblicati su Primo Amore, Rivista Inutile e Nuovi Argomenti. Il suo racconto “Sei minuti”, tratto da Antropometria è stato pubblicato nella sua versione inglese sulla rivista Lunch Ticket dell’Università di Antioch (Los Angeles). Se volete leggere Zardi sul web, il suo blog è grafemi.wordpress.com.Su questo blog abbiamo avuto il piacere di recensire tra i primi Antropometria (dicembre 2011), lo abbiamo seguito ancora nella sua successiva antologia (Il giorno che diventammo umani) e nel suo ultimo romanzo, appena passato nella magica dozzina dei semifinalisti al premio Strega 2015. Gli abbiamo così chiesto se potevamo intervistarlo e lui si è gentilmente prestato alle nostre domande. Buona lettura!
Denise Bresci
Una volta ho sentito dire ‘PZ e’ il miglior scrittore (vivente) di racconti italiano’ da un giovane appassionato di letteratura. Abbandonando la modestia, pensi sia vero? Ci sono racconti di autori italiani che davvero ti piacciano, che consiglieresti ad un amico lettore con i tuoi gusti?
L’affermazione del giovane appassionato di letteratura, che tra l’altro è pure lui uno scrittore di racconti e romanzi, mi lusinga ma credo che il mondo della letteratura, e dell’arte in generale, non si presti a definizioni così assolute: chi legge esprime un particolare punto di vista che va poi confrontato con tutti gli altri.
Nel panorama degli scrittori italiani di racconti, ho amato molto “Paese bello” di Stefano Sgambati, uscito per Intermezzi, e un gioiello di rara bellezza, che è “Rubare il tempo all’allegria” di Marina Sangiorgi, un’autrice incredibilmente raffinata e capace.
Se allarghiamo gli orizzonti (includendo la letteratura straniera) di quali autori in particolare apprezzi i racconti?
I miei punti di riferimento, nel campo dei racconti, sono quattro: Cechov, Flannery O’Connor, Kafka e David Foster Wallace. Sono autori completamente diversi tra loro, ma tutti e quattro avevano un’idea molto chiara di quello che volevano realizzare attraverso il racconto breve (e non è un caso che tutti e quattro abbiano dato il meglio di sé proprio su questa lunghezza). In generale, adoro la capacità di alcuni scrittori americani del ventesimo secolo (Salinger, Nathanael West, Updike) di saper fondere insieme una leggerezza luminosa con una profondità abbacinante.
Sei il tipo di scrittore che cerca di scrivere quello che ama leggere, o come lettore apprezzi cose che non scriveresti?
Sicuramente appartengo alla prima categoria: l’unico lettore a cui penso, mentre scrivo, è il me stesso che legge. Non vorrei mai scrivere qualcosa che poi non leggerei, e se leggo qualcosa che mi piace, quel qualcosa finisce inevitabilmente tra le cose che vorrei scrivere.
Qual e’ secondo te il racconto migliore tra quelli che hai scritto? E quale manderesti ad un premio internazionale, se esistesse un’occasione per farlo?
Mi piacerebbe dire che il mio racconto migliore è il prossimo che scriverò, ma dovendo scegliere tra quelli che ho scritto direi “Futuro anteriore” (da Antropometria), in cui la forma sostiene il contenuto, e “Il bacio” (da Il giorno che diventammo umani), che fonde in un’unica storia tutti i temi che sento vicini. A livello internazionale, è stato già tradotto “Sei minuti”, racconto di apertura di Antropometria che mi pare abbia ricevuto qualche consenso; e se dovessi partecipare a un premio, manderei “Centocinque”, la storia di un uomo che non riesce a morire.
Ti piace di più scrivere racconti o romanzi?
Mi piace scrivere tout court — costruire storie, di qualsiasi lunghezza. Ogni “formato” dà un piacere diverso. Il racconto è come sistemare un’amaca in giardino, un’attività che richiede un po’ di perizia ma della quale si può godere subito; un romanzo, invece, assomiglia alla costruzione di una casa, dove ogni errore iniziale ha impatti potenzialmente fatali sull’esito complessivo del progetto: se però si arriva alla fine, è bello entrare in uno spazio che hai costruito con le tue mani.
Quando ti accingi a scrivere un’opera, racconto o romanzo, scrivi puntando al tuo ‘capolavoro’ ogni volta, o invece tendi a dare voce alla tua idea senza pensare che deve essere sempre e per forza il tuo ‘capolavoro’?
Quando scrivo, cerco di realizzare nel modo più fedele possibile l’idea che avevo in mente. Con i dovuti paragoni, si tratta di uno sforzo in stile michelangiolesco: togliere tutte le parole in più per arrivare a una storia che esisteva fin dall’inizio, nascosta là dentro. Sono quindi piuttosto rigoroso, nella realizzazione, ma ogni storia ha una vita a sé e non compete con le altre per arrivare a un qualche risultato assoluto.
Scrivi ovunque, con qualunque mezzo, o hai bisogno di un certo ambiente (orario, musica, luogo)?
Scrivo praticamente solo in treno, la mattina presto quando parto, e la sera, mentre torno a casa. Mi piace il fatto che il tempo sia delimitato in modo così preciso — lo trovo stimolante. Ascolto musica, un po’ di tutto, anche se ultimamente tendo a preferire il silenzio. Del treno mi piace quella sensazione di sospensione temporale, di distanza dalla vita quotidiana, di solitudine. Chatwin diceva, nel bellissimo libro “Le vie dei canti” che il linguaggio è nato nel movimento, durante gli spostamenti — immagina un bambino sulle spalle della madre intento a dare un nome alle cose che osserva, come Adamo nel giardino dell’Eden. Raccontare una storia e intanto guardare il mondo che scorre dietro al finestrino è un’esperienza naturale e antica.
Quando devi scrivere una scena, una parte di cui hai chiaro lo svolgimento, cerchi di pensare tutto prima di scrivere (dettagli, magari frasi addirittura) o inizi a scrivere e ti lasci guidare dal flusso?
Sì, la gestazione delle storie, delle singole scene, è molto lunga e può durare anche anni, in certi casi. Quando arrivo a scrivere, so esattamente quello che voglio ottenere; poi, però, succede spesso che io mi lasci trascinare dalla scrittura, dalle idee che le parole scelte producono, richiamano, suggeriscono. E’ un approccio ibrido: una lunga preparazione, che però non mi vincola fino in fondo.
Il tuo romanzo candidato allo Strega e’ ambientato nel futuro: leggendolo, pero’, e’ chiaro che poteva essere ambientato anche nel tempo presente. Non hai temuto di essere etichettato come fantascienza ed essere snobbato dall’ambiente letterario o da quei lettori che quando vedono ‘ambientato in un futuro…’ posano il libro e passano oltre?
La mia intenzione non era quella di scrivere un romanzo di fantascienza ma un libro che portasse alle sue estreme conseguenze il declino generale che abbiamo intravisto nei primi anni di questo secolo. Nel romanzo non compaiono invenzioni straordinarie, non ci sono forme di governo che non si siano già viste, e le persone vivono una vita identica a quella che conduciamo noi oggi, piccoli borghesi, con l’inaspettata difficoltà ad arrivare a fine mese, tutti immersi in una precarietà che non è tanto lavorativa quando esistenziale — un futuro così contemporaneo che, ti confesso, a un certo punto ho avuto perfino l’impressione che se non avessi finito presto il libro, sarebbe uscito un romanzo storico…
Con XXI secolo ti sei, volente o nolente, inserito in un filone distopico di grande tradizione. Da Arancia Meccanica a 1984, da l’Eternauta a Un cantico per Leibowitz a La Strada (per citare solo le opere iperfamose e tralasciandone molti altri). Ti sei sentito frenato dal peso di quanti ti hanno preceduto o anzi, questa ricchezza ti e’ servita da stimolo?
Conosco bene i libri che citi, che sono serviti da stimolo e da esempio durante la realizzazione del mio libro, ma sono capolavori talmente irraggiungibili che non mi sono mai posto il problema di dover reggere il peso del confronto: giochiamo in campionati diversi. Ma a questi libri, fondamentali per chiunque voglia scrivere un romanzo distopico, aggiungerei un film che, forse inaspettatamente, ha fornito una parte dell’immaginario per il mio ventunesimo secolo, che è “L’armata Brancaleone”. E’ un film che parla di un mondo post apocalittico, dove persone straccione e senza futuro si muovono in un paese privo di qualsiasi punto di riferimento. La fine del mondo di cui parla XXI secolo è, in altre parole, qualcosa che l’Europa ha già sperimentato.
Nei tuoi scritti io vedo la volontà di portare temi importanti dentro la narrativa, di superare le storie, come si dice, ombelicali. Di confrontarsi con la realtà, con il cambiamento, da un punto di vista un po’ più ampio: anche se in XXI secolo c’è una forte componente privata, molto sentita, l’idea e’ che il personaggio alza la testa e guarda, riflette e pensa non solo a se stesso. Anche nei tuoi racconti — penso soprattutto ad Antropometria — i personaggi sono vivi, moderni: guardano la realtà e la riflettono, con le sue contraddizioni e bizzarrie. Pensi che i tempi siano maturi perché si possa scrivere di qualcosa che vada al di là delle patetiche storie sentimentali o dei peana narcisistici di tanti giovani ‘talenti’?
Sono convinto che la letteratura sia nata quando un uomo ha alzato la testa al cielo e si è chiesto in che relazione stavano lui e l’universo nel quale era immerso. Le storie che mi interessano sono quelle che parlano dello scontro tra l’uomo e il mondo, e in particolare dell’impronta, della cicatrice, del solco, che il mondo lascia sull’uomo.
Quanto di te c’è nel protagonista di XXI secolo? Condividi le sue reazioni, i suoi pensieri o hai cercato di creare qualcuno ‘altro da te’?
Il percorso di creazione di un personaggio, e di un libro in generale, passa necessariamente attraverso la propria esperienza, il proprio vissuto, le proprie inclinazioni. Tuttavia, non esiste una corrispondenza così precisa tra me che scrivo e il personaggio principale del XXI secolo (confesso, invece, che in ogni libro mi concedo di comparire in un piccolo cameo che solo chi mi conosce bene riesce a individuare). E’ costruito con i mattoncini che compongono la mia vita, ma il loro assemblaggio mette in moto creature nuove: il rapporto con il personaggio senza nome di XXI secolo è di una leggera parentela — penso a loro come cugini, o vecchi zii che non vedo da molto tempo ma ai quali sono particolarmente affezionato.
Se dovessi sposare una tradizione letteraria occidentale, quale sceglieresti (americana, francese, inglese, russa, …)
Se elenco i nomi degli autori che amo, mi rendo conto che non sono interessato a una tradizione su base, diciamo così, nazionale o linguistica, ma a un filo nascosto che unisce autori vissuti in epoche e nazioni diverse. Amo Flaubert, un francese, e Nabokov, un russo che ha dovuto girare il mondo, l’americano ed ebreo Philip Roth, l’inglese Martin Amis, e Céline, un altro francese molto distante da Flaubert, il tedesco Kafka, l’argentino Borges. Qualcosa li tiene insieme — e quel qualcosa, al quale non so dare un nome, è il nucleo della letteratura che piace a me.
Hai qualche progetto vicino o lontano di cui vuoi/puoi parlare?
A metà maggio uscirà un mio racconto in una bella raccolta pop curata da Las Vegas; a fine maggio, invece, vedrà la luce per i tipi della Galaad una raccolta di racconti che ho curato personalmente, e che vede venti autori cimentarsi con un tema che mi è caro, cioè l’amore ai tempi dell’apocalisse. Nei prossimi mesi, poi, avrò l’onore di vedere pubblicato un mio racconto lungo per Feltrinelli; e nel 2016 dovrebbe uscire un nuovo romanzo, scritto prima di XXI secolo, che parlerà di eutanasia, lavoro, religione e identità. Nel frattempo, sto scrivendo alcuni racconti e cerco di portare avanti il progetto di un nuovo romanzo. Il tempo è sempre pochissimo, ma scrivere mi definisce, non potrei proprio farne a meno.