L’ultimo angolo di mondo finito di Giovanni Agnoloni
Si conclude la trilogia della fine di internet
Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni romanzi nell’alveo della fantascienza, da case editrici tradizionalmente di fantascienza, che hanno rappresentato una forma di narrativa mainstream esule dai canali istituzionali. È una forma di occupazione: dal momento che certa letteratura (speculazione, distopia, satira) ha difficoltà a venire alla luce nei canali istituzionali, cerca di apparire là dove nominalmente ha maggior diritto — con conseguenze non sempre positive. Infatti alcuni romanzi alla fine restano in mezzo: troppo fanta o troppo scienza per essere apprezzati per i loro contenuti di critica sociale o politica, troppo densi o ingombranti per un certo tipo di pubblico che nella fantascienza cerca solo avventura o thriller tecnologico.
Così il mio stesso “Nessun Dubbio” (edito da Delos), o “Real Mars” di Alessandro Vietti (edito da Zona 42) — e cito questi solo per conoscenza personale: sono certa che ci siano altri esempi importanti.
Con La trilogia della fine di internet di Giovanni Agnoloni siamo di fronte ad un esempio ancora più eclatante sia quantitativamente sia qualitativamente: quantitativamente perché questo romanzo non è singolo ma multiplo — in quanto ultimo di una trilogia arricchita da uno spin-off — e qualitativamente perché appare proprio come una storia di fantascienza (nella prima scena del primo romanzo incontriamo un androide!) ma è ben lontana per scopi e contenuti da quel genere di narrativa, almeno per come viene percepita in Italia.
L’opera di Agnoloni è un monumentale affresco distopico in cui i personaggi compiono tuttavia una recherche filosofico-esistenziale cercando di raggiungere innanzi tutto il più profondo sé.
Una delle molte particolarità di questa trilogia è che i personaggi sono animati da una volontà propria per quello che riguarda le loro motivazioni più intime e forti, ma sono in realtà guidati nel loro agire dalle loro reazioni agli eventi esterni: la trama è una trama “ad eventi”, nel senso che in molti momenti i personaggi si animano in base a ciò che percepiscono stia accadendo, come fossero tutti foglie immobili sospinte ora da questo ora da quel refolo di vento. Sono come pedine mistiche in ascolto di una realtà altra, sottesa ai fatti esteriori, che muovono di volta in volta a seconda del segnale, dell’intuizione che ricevono.
I fatti esteriori sono la distopia, la parte di fantascienza, se vogliamo, o meglio di speculazione.
Gli eventi che abbiamo visto accadere nei volumi precedenti hanno dato vita ad un mondo così simile al nostro da non essere quasi percepito come futuro, ma piuttosto come “alternativo”: un fatto ha reso la vita dei protagonisti diversa dalla nostra. Il fatto è importante ed è la scomparsa della rete come la conosciamo oggi: teoricamente marginale — non è un’apocalisse nucleare — ma praticamente devastante nelle sue conseguenze sociali e personali. Ed è questa parte che interessa soprattutto all’autore: perché tanto più forte è lo sgomento, lo spaesamento dei protagonisti, tanto più forte è l’affermazione dell’importanza che ha per noi tutti la telecomunicazione, ad un livello prima di tutto personale. Non viene infatti indagato in particolare come reagisca il “sistema-mondo” (Le banche? Le carte di credito? La produzione industriale?), quanto invece come reagisca il “sistema-persona”; in che misura la dilaniante solitudine che ci accompagna sia amplificata o mitigata dalla scomparsa di quella che è oggi l’occupazione principale di molte, molte persone — quantomeno in Occidente: la comunicazione virtuale continua, assorbente, divorante.
L’impossibilità di continuare l’immersione risveglia i nostri personaggi (e noi con loro) e li accompagna a guardare con occhi nuovi, spalancati, il mondo intorno a loro e il mondo dentro di loro: ascoltare, cercare di capire, di conoscere davvero, eliminando il frastuono assordante delle miriadi di informazioni da cui siamo al momento bombardati, è il nuovo.
C’è una riflessione profonda nello spaesamento che viene messo in scena e questa riflessione rende l’arte di Agnoloni arte concettuale: nella sua storia ogni elemento è simbolico ed è questo che rende così piacevolmente criptica e tanto affascinante la lettura. Non posso ad esempio non pensare che la presenza degli “ologrammi” — entità-cloni che accompagnano le persone, dialogando e interagendo con loro come amici immaginari ma virtualmente essendone copie — rimandi al problema della “Confirmation”, uno dei fenomeni più preoccupanti della nostra immersione nel mondo dei social. Vedere gli individui parlare e accompagnarsi con un ologramma che di fatto è solo una proiezione oggettivizzata di sé (della propria esteriorità, ma anche e soprattutto della propria mente) ci mostra quanto spaventoso sia il nostro dialogare e accompagnarci virtualmente ogni giorno con le comunità di “amici” che di fatto sono comunità omogenee di pensiero in cui il pensiero dominante è appunto sempre e comunque identico al nostro.
II pellegrinaggio continuo dei protagonisti, il loro incedere nel mondo reale man mano che scoprono pezzi del puzzle, appare così come un vero e proprio viaggio di liberazione: essi ci appaiono come pesci che da un acquario raggiungano un oceano, aiutati ora dal proprio intuito, ora dall’amore per l’arte e la bellezza — perché nella trilogia c’è letteratura e musica e amore. Ci sono paura e incertezza, perché l’oceano è grande e privo di sentieri battuti: ma ci sono anche speranza e fiducia, perché nella nostra natura è insito il segreto che ci permetterà di superare il baratro e quella è la vera chiave mistica che Agnoloni indica, evocando un futuro dal sapore rinascimentale che ci piacerebbe davvero vedere.
Denise Bresci